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  • Writer's pictureNicolò Govoni

Nonno



Lui è il mio nonno. Ha 91 anni e la memoria ballerina. Non ci vediamo da tanto tempo, ma anche quest’anno, come tutti gli anni, mi legge e, ovunque vada, porta il mio libro sottobraccio. “Il mio Nicolò è uno scrittore,” dice a tutti e, pur sapendo che l’orgoglio non sostituisce la presenza, saperlo felice mi riempie il cuore.


È ormai quasi una decade che vivo lontano dall’Italia. Quasi dieci anni, stento a crederci. Ero un ragazzino quando sono partito, non ho mai pensato al mio “arrivederci” come al primo di una lunga serie, o al preludio di un “addio”, ma forse lui sì. Forse lui sapeva. Mi aveva abbracciato, quella prima volta in aeroporto, con la forza e lo struggimento di chi, nel tacito del suo animo, aveva già scorto la fine di un’era e la nascita di un futuro nuovo. Che ne sapevo io, imberbe, ingenuo, affamato di domani, che tutto stava per cambiare! Niente più pranzi la domenica, e Vigilie di Natale intorno al caminetto, e passeggiate tra le cascine. Gli anziani, si sa, vedono cose che noi figli dell’estate possiamo solo immaginare.


Riuscivo a tornare di quando in quando, ritagli di tempo rubati a Missioni sempre più urgenti, sempre più impegnative. Tornavo e mi dedicavo a loro, ai nonni, principalmente. Sapevo che ogni ora di ogni giorno era preziosa, le perle di uno scrigno che avrei custodito con estrema gelosia, per sempre. Sapevo che non erano settimane, o mesi, o anni quelli che mi restavano con loro, ma “volte” - semplici volte, da contare sulle dita di due mani, prima dell’ultimo commiato. Avevo scelto una vita consacrata al raggiungimento di uno scopo finale, e avevo accettato i sacrifici che questa richiedeva, abbeverandomi dai momenti - brevissimi - di famigliarità, di casa e di normalità che mi erano concessi. C’era equilibrio.


Questo, s’intende, prima della pandemia.


“Mi manchi tanto,” mi ha detto al telefono, ancora e ancora, negli ultimi due anni. Prima in Etiopia, poi in Kenya e poi ancora in Congo. Due anni di lontananza, due anni senza mai tornare. I più lunghi della mia vita finora. Il primo, in cui viaggiare tra i continenti era quasi impossibile, e il secondo, in cui la crescita di Still I Rise aveva reso ogni mio spostamento semplicemente impensabile. Ma non era solo una questione di logistica, era soprattutto una questione di responsabilità - responsabilità verso la Missione, verso i miei colleghi, verso i miei studenti. Avevano bisogno di me, e i nonni mi hanno sempre insegnato a stare vicino a chi ha bisogno. E così abbiamo trattenuto il respiro, lui da una parte e io dall’altra del mondo, mettendo da parte i nostri bisogni individuali, consci che un giorno, così come ci siamo abbracciati nella partenza, ci saremmo abbracciati, di nuovo, nel ritorno.


E, finalmente, ci siamo quasi.


Sorrido mentre lo scrivo, il mio cuore perde un battito e mi sale un’emozione che neanche la pubblicazione di un libro può battere, neanche per sogno, neanche per sbaglio, mai. Sto per tornare. Dopo due anni - gli anni più faticosi della mia vita finora - sto per tornare a casa. Ecco, a questo stento davvero a credere. Sono successe così tante cose, così tante sfide, così tanti errori, così tanti traguardi da allora che… Insomma, la so ancora, la strada di casa? Ma poi chiudo gli occhi, e tutto torna, come un fiume in piena: la luce soffusa della domenica mattina, il caffellatte prima di scuola, l’odore della brina nel primo inverno, il gelo della campagna appena fuori, e il tepore dell’infanzia a ogni ritorno. Il suono della sua risata, e le margherite in primavera, e il melone e i salumi e le zanzare - Dio, le zanzare! - la sera, d’estate. E poi le biciclettate, e l’odore del cloro, il sapore delle more, e le foto che mi facevi sempre vedere, con orgoglio - te e me, me e te, all’inizio di tutto. “Te lo ricordi quando…?” mi chiedevi, ed è qui che riapro gli occhi, perché certo che me lo ricordo, come potrei mai dimenticare? Tutto questo è “me” prima ancora che ci fosse un “me”, è l’alfa e l’omega, il sole e la luna, l’inizio e la fine - è parte di me, lo è sempre stato, e lo sarà sempre. Certo che ricordo la strada di casa. Anche tra cinquant’anni, anche dopo tutti i continenti, anche reduce da ogni singola esperienza di questo mondo la ricorderei ancora. Ed è questo il punto di tutto: troverò sempre la via di ritorno a queste vecchie ciabatte, a questo divano azzurro, al panno per i piatti là dietro, a quel microonde immortale, e al tuo paio di occhiali perché, senza di loro, io non sono io. Non importa quanto lontano viaggerò e quanto il mio volto cambierà, troverò sempre la via di casa perché lei è me, e io sono lei.


È proprio questo il regalo più grande che tu mi abbia mai fatto, nonno: un luogo, nell’anima, a cui appartenere. Un luogo da cui trarre la forza di andare avanti. Un luogo chiamato “casa”.


Tra poco ci rivediamo, nonno, finalmente. Non vedo l’ora.


***


“Fortuna” è un romanzo profondamente autobiografico. Il rapporto con i miei nonni ha ispirato quello tra i personaggi, le loro emozioni, le parole dette e non dette, e l’affetto che imparano a costruire via via. Perché ci si salva solo insieme, noi esseri umani, ed è proprio questo il tema fondamentale di “Fortuna”, e della vita di tutti noi. Scoprilo ora!

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