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  • Writer's pictureNicolò Govoni

Di Michela Murgia

“Immaginate di avere 27 anni, svegliarvi una mattina e scoprire di essere candidati al premio Nobel per la pace. Credete di non aver fatto nulla di speciale e invece di colpo scoprite che le scelte che a voi sembravano naturali sono qualcosa di così raro e prezioso da poter essere additato a tutto il mondo come un esempio da seguire per costruire rapporti di reciproca solidarietà. È questo che è appena capitato a Nicolò Govoni, cremonese, che a 20 anni è partito dalla Lombardia alla volta dell’India per vivere la sua prima esperienza di cooperatore internazionale in un orfanotrofio.


È una scelta che dall'Italia fanno tanti, ma se ne parla solo quando uno di loro scompare, come Silvia Romano, la volontaria da tre anni nelle mani dei suoi sequestratori. A Nicolò non accade per fortuna nulla di tutto questo. Nei suoi quattro anni in India riesce anzi a ribaltare le sorti dell'orfanotrofio attraverso l’istituzione di un fondo per l'educazione finanziato dal suo primo libro, Bianco come Dio, pubblicato con successo da Rizzoli.


L’attivismo di Nicolò è servito a costruire la biblioteca dell'orfanotrofio e a sostenere gli studi di molti dei suoi piccoli ospiti. Da quell'esperienza è nata la competenza che gli è servita per raggiungere il luogo dove i diritti umani sono violati da più tempo sotto gli occhi di tutti: il bacino del Mediterraneo, per la precisione l’isola di Samos, in Grecia, un avamposto dell'Egeo a poche miglia dalla Turchia, dove si trova uno dei campi profughi peggiori d’Europa.


Costruito per ospitare 648 persone, secondo l'Alto Commissariato per i rifugiati Samos oggi ha 7.200 sfollati, oltre 400 dei quali sono orfani. Davanti a quel dramma Nicolò non si limita all'emergenza; con un gruppo di amici decide di fondare Still I rise, una ONG che, senza alcun contributo da parte dei governi, apre, nel 2018, una scuola informale per minori che offre formazione a migliaia di adolescenti profughi.


Si studia inglese, greco, matematica, arte, storia, geografia, computer, teatro e musica, ma anche cultura europea, diritti delle donne e intelligenza emotiva. Il centro è però un luogo di protezione, dove tutti i giorni 130 minori trovano rifugio, cibo e talvolta - grazie alle denunce alla Corte europea dei diritti umani che le ONG non smettono di fare - anche il trasferimento in zone più sicure. È un lavoro di frontiera in tutti i sensi possibili e nessuno dei volontari lo fa per cercare onori, che peraltro quasi mai arrivano.


Che significato ha, dunque, essere candidati al Nobel per questo?


Dopotutto, nel tempo, si sono viste avanzare anche candidature pittoresche e assegnazioni da lasciar perplessi. Episodi simili dipendono dal fatto che quello per la pace è, tra tutti i Nobel, il più discrezionale. Fisica, chimica, letteratura, medicina ed economia sono, infatti, materie in cui occorre avere compiuto un percorso di studi, ricerche, opere, scoperte o teorizzazioni verificabili. Non è chiaro quali siano i criteri di merito con cui identificare chi costruisce e protegge la pace. Gli stessi governanti, che a parole professano di volerla realizzare, poi compiono scelte di governo contradditorie. Molti si attengono al famigerato ‘Si vis pacem, para bellum’, che descrive la pace come qualcosa che si ottiene solo se si è sempre pronti a far la guerra.


Oggi il titolo di costruttore di pace per l'Accademia di Svezia non si ferma più solo a figure politiche che si siano distinte per aver contribuito a sedare conflitti. Negli ultimi anni il focus del merito si è spostato dall'ambito governativo a quello della società civile, indicando anche persone che per varie ragioni incarnano lo sforzo per perseguire la giustizia, che della pace è la fonte primaria. Questo cambio di orientamento è però addirittura più politico del precedente: per costruire la giustizia bisogna infatti andare dove è negata, rivelando le responsabilità.


Così grazie al Nobel a Liu Xiaobo abbiamo conosciuto meglio le violazioni dei diritti umani in Cina; quello a Nadia Murad ha portato all'attenzione internazionale il genocidio yazida dell’Isis e il premio a Malala Yusafzai ha dato un volto alla discriminazione delle donne pakistane a opera dei talebani. Una eventuale assegnazione del premio a Nicolò sarebbe detonante, perché - se è vero che spesso i vincitori del Nobel per la pace vivono in Paesi non democratici e sono perseguitati da gruppi armati - le ONG agiscono invece nel contesto delle democrazie europee e nessuna democrazia vuole passare per persecutrice della giustizia.


Il Nobel a un giovane uomo la cui sete di giustizia rivela così bene le responsabilità europee sulle condizioni della violazione dei diritti umani di migliaia di adulti e bambini sarebbe davvero un atto di coraggio. Coloro che hanno sete di giustizia possono solo sperare che l’Accademia di Svezia trovi il coraggio di compierlo.”



Domani l'Accademia annuncia il vincitore del Premio Nobel per la Pace 2020. Non sarò io, ed è giusto così. La nomina è stata un bellissimo incoraggiamento, ma quest'anno ci sono incredibili donne e uomini che meritano il Nobel più di me.


Condivido questo splendido pezzo di Michela Murgia (Messaggero di Sant'Antonio, marzo 2020), sperando che la scelta di quest'anno ricada su un volto - o una collettività - in grado di infondere coesione, empatia e forza all'umanità intera.


Siamo tutti in attesa di un segno, qualcuno che ci ispiri a credere che, dopo la lunga notte, l'alba sarà ancor più luminosa. Il Nobel esiste proprio per questo. Io ci spero con tutto me stesso.

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