Insegno a una classe di bambini rifugiati da quasi un anno, e ho rinunciato a un Master a New York per farlo.
“Ti stai buttando via,” mi hanno detto i famigliari. “Ti accontenti di poco,” hanno pensato gli amici. Eppure sono rimasto, e ciò ha fatto la differenza.
Otto mesi dopo, apro la prima scuola per bambini e adolescenti vulnerabili del campo profughi di Samos, ed è il sogno della mia vita.
Sono tornato in Europa nel 2017, dopo quattro anni di vita in India, quattro anni di amore, speranza e profumo di gelsomino. I miei bambini laggiù mi hanno insegnato chi sono e chi voglio diventare.
Avevo vent’anni quando sono partito per la prima volta. Mi sentivo vecchio e soffocato dalla società occidentale, e così sono partito per tre mesi di volontariato in un piccolo orfanotrofio. Qui ho riscoperto la vita. “Noi non viviamo davvero,” mi sono detto. “Noi sopravviviamo solamente.” Il tepore della terra rossa sotto i piedi nudi e le risa dei bambini intorno, chiudo gli occhi e scuoto il capo. “Io resto, e mi dedico a questi bambini.”
Nei quattro anni successivi, grazie all’aiuto di migliaia di persone, costruisco un dormitorio, salvo l’orfanotrofio dalla chiusura, e mando tutti i bimbi a scuola e sei dei più grandi all’università. Nel frattempo, mi laureo in giornalismo.
Nel luglio del 2017, lascio l’India sapendo di aver creato stabilità nel mio orfanotrofio e con la promessa di continuare ad aiutare a distanza.
Ricevo un’offerta di lavoro da una rivista sudamericana che promette un salario esorbitante, e la morte della mia etica di giornalista. Se accettassi, dovrei asservire la mia scrittura alla vendita di pubblicità truffaldine, ma risparmiando potrei permettermi di continuare gli studi. Andando contro il consiglio di tutti, rinuncio. Decido invece di fare volontariato.
Ad agosto parto per la Palestina. Lavoro per una piccola associazione che supporta donne e bambini nella West Bank. “Hai sponsorizzato un orfanotrofio per quattro anni?” mi chiedono. “Aiutaci a ricevere finanziamenti.” Purtroppo, però, io non ne ho le capacità. Non ho contatti con grandi associazioni o aziende. Dopotutto, ho supportato il mio orfanotrofio in India solo grazie ai miei lettori: Voi.
A settembre mi sposto a Samos, in Grecia, dove mi unisco a un’associazione olandese di medici e psicologi che operano nel campo profughi dell’isola. Inizio a insegnare a una classe di bambini rifugiati, ma l’associazione decide di concludere la missione e levare le tende dopo due settimane. Posso seguirla a Lesbo o restare con una piccola associazione locale, Samos Volunteers. Di nuovo, resto.
Nei tre mesi successivi, plasmo un programma educativo per bambini rifugiati provenienti dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Palestina, dal Kurdistan, dall’Iran, dall’Algeria, dal Congo. Con un team di volontari, insegniamo inglese, greco, matematica, biologia, geografia, arte, cucina, educazione sessuale e basket. È dura, e gli ostacoli sono molteplici, ma la Missione mi colma di gioia. Nonostante non sia pagato, sto alleviando le pene di altri esseri umani, e questo è il lavoro più importante della mia vita.
Insegnare, dopotutto, è la forma d'amore più pura, e sono in grado di farlo solo grazie a ciò che i miei bambini mi hanno insegnato in India.
A dicembre scopro che uno dei miei bambini, un orfano arrivato a Samos con dei parenti, vive una situazione di abuso domestico. Decido di fare tutto il possibile per aiutarlo.
Pochi giorni dopo, la State University of New York mi offre una parziale borsa di studio per gli studi del Master. È il sogno di una vita, eppure esito. I miei studenti sono sfuggiti alla guerra e hanno perso tutto, ma ora hanno qualcosa di prezioso, un mentore, e i loro occhi brillano di gratitudine ogni giorno. E poi c’è questo bambino, questo bambino che non ha nessun altro a vegliare su di lui. Come posso andarmene?
“Al diavolo,” mi dico. “Le persone valgono più dei certificati, dei soldi, del prestigio, della carriera, e sì, pure dei miei progetti.” Mi basta specchiarmi nel sorriso del mio studente per decidere. “Resto dove hanno bisogno di me.”
Devo riuscire ad aiutare questo bambino. Faccio appello al sistema di protezione dell’infanzia. Chiedo aiuto agli assistenti sociali. Chiedo aiuto al governo. Chiedo aiuto alle Nazioni Unite. Nessuno alza un dito.
Non mi lascio scoraggiare. Lui merita di meglio, merita una Casa, e io posso offrirgliene una. Mi offro come padre in affido. È una follia, me ne rendo conto, ma non è forse più folle abbandonare un bambino quando potresti tendergli la mano? Pare funzionare, all’inizio, ma poi il sistema rivela la sua totale corruzione. “Sei un piantagrane,” dicono gli occhi degli assistenti sociali. “Datti una calmata,” mi intimano gli esponenti del governo. La mia denuncia e il caso di questo bambino vengono ignorati, seppelliti, messi a tacere.
Ho perso la prima vera battaglia della mia vita, e mi si spezza il cuore. Posso solo stare a guardare mente il bambino peggiora e scivola via. Penso di gettare la spugna e di andarmene. Ma di nuovo, resto. Ho perso, sì, ma sebbene non possa salvarli, posso ancora offrire ai miei bambini gli strumenti per costruirsi una vita migliore. Sono infuocato da un gigantesco bisogno di giustizia.
A marzo raccolgo fondi e dò vita a un programma sanitario per i miei ragazzi. Dopo anni senza averne la possibilità, i miei bambini ricevono le cure dentistiche e oculistiche che necessitano. Scrivo “Dreaming Wide”, il primo libro di testo pensato per minori rifugiati in Europa. Lo pubblico gratuitamente online. Barcollo, ma resisto. Resisto perché, sebbene sia stato sconfitto, so che esiste un mondo migliore. L’ho visto. Lo vedo ogni giorno riflesso negli occhi dei miei bambini.
Poco dopo firmo un contratto con Rizzoli per la ripubblicazione di “Bianco Come Dio”, il racconto dei miei quattro anni di volontariato in India. La nostra Missione, nata dal nulla e in cui nessuno credeva, finisce su Rai 3, davanti agli occhi di un’intera nazione.
A maggio fondo una ONLUS internazionale, Still I Rise. Il campo profughi di Samos sta esplodendo con quasi 3000 persone infilate in uno spazio pensato per 700, e la mia classe ne porta le cicatrici. I bambini soffrono doppiamente le pene degli adulti: una volta vivendole sulla propria pelle, e un’altra di riflesso dai genitori. È una catastrofe, e non c’è più tempo da perdere.
Dobbiamo aprire una Scuola.
A giugno, grazie all’interesse generato da Rizzoli e da Rai 3, raccolgo fondi a sufficienza per affittare un edificio e iniziare a ristrutturarlo. “In 30 giorni apriremo la Scuola,” mi riprometto iniziando la ristrutturazione. Pareva impossibile. Poi, però, la notizia migliore di tutte: un anonimo lettore di “Bianco Come Dio” decide di sponsorizzare la Nostra Scuola per un anno intero!
In un mese costruiamo i muri, rifacciamo l’impianto elettrico, ordiniamo banchi e sedie da Atene, installiamo i condizionatori e riceviamo tutta la cancelleria di cui abbiamo bisogno. In tre parole, costruiamo una Scuola, insegnati e bambini insieme, intenti a pulire, misurare e riordinare ogni giorno per dare vita a un luogo di pace e rinascita privo sia degli abusi del campo profughi, sia delle angherie e dell’ansia proprie dell’istruzione tradizionale.
Anche il mio bambino, quello che mancai di aiutare, è qui ogni giorno, munito di cacciavite, a costruire la Sua scuola. Finché è qui, io so che è al sicuro. Finché è qui, io so che è felice. Perché questa è la Sua scuola. È la Loro scuola. È la Nostra Scuola.
Oggi, un mese dopo, quasi cento bambini e adolescenti imparano e vivono nello spazio più sicuro, adatto e, lasciatemelo dire, bello dell’isola. Oggi cento minori altamente vulnerabili hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, la scuola per cui sono sopravvissuti a una guerra e attraversato mari e monti, la scuola che offre loro un’alternativa alla prigione in cui vivono. Questa è Mazì—“Insieme”.
Perché Insieme è come l’abbiamo costruita. Insieme ai miei nonni, che m’insegnarono la compassione quando ero bambino; Insieme ai miei bambini in India, che mi hanno insegnato la responsabilità, la tenacia, e a diffondere l’amore nel mondo; Insieme ai miei studenti, che mi hanno insegnato la Vita; Insieme a Giulia, la sorella che non ho mai avuto, che mi ha sfamato nei giorni più bui, e grazie alla cui dedizione questa Scuola esiste; Insieme a Sarah, la cui gentilezza e fede hanno gettato fondamenta ed eretto muri; Insieme a Voi, che avete riposto la vostra fiducia in me, così che io possa brandirla a difesa di ciò che è giusto. Proprio così, Insieme. E questo è il bello della nostra Missione. Senza tutti voi, io non sono nulla. Insieme, Noi Siamo Uno. E a volte, Uno è abbastanza.
Mazì è la prima scuola per bambini e adolescenti rifugiati di Samos, in Grecia. Ma Mazì è più di una semplice scuola. È un rifugio per bambini vulnerabili, così che essi imparino a confidare di nuovo nella bellezza della vita. Nella Nostra Scuola, i bambini possono tornare bambini.
È stato un lungo viaggio iniziato con quello che in molti hanno definito un errore. Un anno fa tutti mi hanno detto di andarmene e continuare la mia vita. Grazie al cielo sono rimasto.
Ho mandato a monte i miei piani per colmare la mia vita di significato. Dare un futuro a un bambino in difficoltà mi dà più gioia, orgoglio e soddisfazione di centomila capi firmati o cene in ristoranti chic o vacanze nei resort o macchine cromate. Desidero una vita colma di significato, non di roba.
Questo è il mio mantra: fai della tua vita un capolavoro, e il mondo diventerà un’opera d’arte.
E non lo faccio mica gratis, tutto questo, qualcosa in cambio la ricevo, perché mentre io insegno ai miei bambini come vivere la vita, loro m’insegnano ad amarla. Esatto, sono solo un venticinquenne con un sogno: lasciare il mondo un po’ migliore di come l’ho trovato.
Dopotutto, celebrare la vita è farne il miglior uso possibile, e alleviare il dolore altrui è la miglior vita che io possa vivere.
Mazì è aperta! Ce l’abbiamo fatta! Stiamo cambiando delle vite!
Grazie a tutti di esserci,
Nico
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